L’indipendenza dei poteri Renzi riscopre Montesquieu Il presidente del Consiglio Matteo Renzi, difendendo i sottosegretari inquisiti del suo governo, si è vantato di aver difeso i principi di Montesquieu, i quali garantivano l’indipendenza del potere giudiziario da quello politico e viceversa. Se anche la classe di governo repubblicana del 1992 si fosse ricordata di Montesquieu, probabilmente sarebbe per buona parte ancora alla guida del Paese, visto che per le dimissioni occorre almeno una sentenza definitiva e non un semplice avviso di garanzia e, soprattutto, si sarebbe potuta arrogare il potere legislativo, al quale i magistrati devono comunque sottomettersi. Invece, alla faccia di Montesquieu, tutto il sistema venne giù come un frutto bacato cade dal pero. Se volessimo fare una discussione seria, crediamo che il premier abbia voluto semplicemente fare su Montesquaieu una battuta ad effetto, dovremmo renderci conto innanzi tutto del contesto storico. Montesquieu difendeva l’indipendenza dei poteri sotto l’assolutismo, non era un agitatore politico vero e proprio, ma uno spirito libero. Volendo colpire il sistema filosofico di Thomas Hobbes che la Francia incarnava da Luigi XIV, Montesquieu cercava di far si che almeno i magistrati fossero indipendenti dal volere del re. Solo che, una volta preso il potere, i nemici dell’assolutismo Montesquieu lo rimossero completamente. Il conte di Mirabeau spiegava che tanto il potere giudiziario come quello legislativo, derivavano da una sola fonte, il volere del popolo. E quindi sia i sostenitori della monarchia costituzionale che i repubblicani, convennero nel mettere i magistrati sotto il potere del governo. Visti gli eventi, non sempre edificanti della vita giudiziaria sotto la Repubblica, la questione si è riaperta, ma per tutto il secolo successivo nessun governo repubblicano, dove venne instaurato vedi la Repubblica romana, si sognava di rendere i giudici indipendenti dal potere politico. Nella Francia del secondo dopoguerra il rapporto fra potere politico e giudiziario è stato strettissimo, quasi confidenziale. La Repubblica ricordva che Robespierre preferiva sapere liberi dei mascalzoni buoni patrioti piuttosto che dei cittadini dai costumi irreprensibili, ma legati al partito aristocratico. In Italia, la Repubblica, affrontò la questione con una certa preoccupazione. In sede costituente i repubblicani in quanto tali volevano persino far eleggere i magistrati se si voleva considerarli allo stesso livello del governo. Giovanni Conti li definì un quarto potere, ovvero il quarto dello Stato, ad un rango di ordinamento. In quanto tale, nemmeno potevano procedere contro un parlamentare senza l’autorizzazione delle Camere. E poiché questa gli venne negata quando inquisirono Craxi, i magistrati di Milano minacciarono le dimissioni e aizzarono le piazze. A ventitre anni da Tangentopoli, Gherardo Colombo ha avuto modo di ricordare che la politica si fa le leggi e che quindi se non le vuole osservare, può ben cambiarle. Si è dimenticato di quando lui ed i suoi colleghi rifiutarono di rispettarle le leggi e si rivolsero direttamente alla pubblica opinione. Se Renzi vuole affrontare la riforma della Giustizia, ritorni interamente allo spirito costituente per cui il popolo è la fonte della legge e la magistratura gli si sottomette. Allora avrà ben ragione di difendere tutti gli inquisiti del suo governo, fino a prova contraria. Altrimenti, si prepari a scontare una scelta coraggiosa ma completamente controcorrente le convinzioni a riguardo in Italia, da Tangentopoli ad oggi. Roma, 24 marzo 2015 |